Sofferenza
La sofferenza sembra un titolo, di un libro dove c’è scritto come combattere la nostra malattia, da cui nessuno di noi è immune, dove il medico prescrive, per debellarla, farmaci o antibiotici a seconda della diagnosi di malattia.
Questa malattia, questa sofferenza, va ben oltre il corpo fisico: si annida dentro di noi, nel nostro essere più profondo, rimanendo sempre in guardia, prima in forma latente per poi riaffiorare e tornare ancora al suo posto.
Qui il farmaco non avrebbe grande efficacia. Perché?
O meglio, la sua efficacia limita il dolore, dando forse sollievo, ma restando presente come un’ombra nascosta, invisibile ai nostri occhi! Vediamo solo quella parte che i nostri occhi sono pronti a vedere. Noi vediamo il mondo attraverso una finestra, e dietro a quella finestra ci siamo noi.
Ciechi di fronte alla nostra sofferenza, che ci viene data inconsapevolmente con la nostra nascita. Noi, inconsapevoli, ci siamo nutriti delle nostre madri, delle loro sofferenze. Loro, inconsapevoli della loro sofferenza, ci hanno nutriti, non solo del latte di cui avevamo bisogno per sopravvivere, ma di un latte inquinato.
Quindi, dentro di noi, nasce una sorta di colpevolizzazione, qualcosa che ci spinge a chiederci: “Sono io la causa? È stata la mia nascita?”
No. Noi siamo ignari spettatori del vissuto condizionato delle nostre madri, della loro sofferenza, non della nostra.
Noi respiriamo questa aria di inadeguatezza, di colpevolezza. Siamo spettatori di colpe non nostre. Questa forma ombelicale della sofferenza è come vivere due vite: la prima, in cui la sofferenza è inconsapevole ai nostri occhi; e la seconda, in cui siamo consapevoli delle nostre sofferenze, che la vita ci porta a sperimentare.
La prima vita ci vede ignari, la seconda consapevoli. E possiamo scegliere se essere vittime di questa sofferenza oppure esserne artefici, non più spettatori. La parola “artefice” significa migliorare, cambiare, impegnarsi a migliorare la nostra vita nonostante questa sofferenza.
Prima parlavo della sofferenza come titolo di un libro, ma in realtà il titolo siamo noi. Il libro siamo noi. Cambiare il titolo di noi stessi non è qualcosa di semplice, ma non è importante cambiare il titolo. La cosa necessaria, su cui riflettere, è il modo in cui noi ci vediamo. Se ci guardassimo allo specchio, vedremmo la nostra immagine riflessa e il passare del tempo.
Ma dentro, nel nostro essere, esiste un altro specchio: è lo specchio delle nostre sofferenze, delle cicatrici. Ed è questo che dovremmo cambiare: non il titolo, ma le pagine di quel libro.
M. T.